Economia

Perché lo spopolamento del Bellunese dovrebbe interessare (ed allarmare) anche Primiero

Spopolamento del bellunese - Foto di Manuel Conedera
Scritto da Flavio Broch

Mi è capitato di recente di imbattermi in questo articolo del Corriere delle Alpi: un’indagine zeppa di spunti (e di dati) sullo spopolamento della provincia di Belluno, che non va a toccare solo i freddi numeri ma si concentra in special modo sull’invecchiamento costante della popolazione, sullo smantellamento dei servizi e più in generale su una situazione di continuo riadeguamento degli standard verso il basso. La crisi non è più una scusante, e sia che si parli di qualità della vita, sia che si parli di industria e lavoro, dall’inchiesta emerge con forza il circolo vizioso dentro il quale la montagna è da tempo entrata e che non riesce ad uscirne in nessun modo. Quello che ne vien fuori è una situazione in cui Belluno è abbandonata dalla regione, le valli sono abbandonate da Belluno, e avanti così fino al singolo cittadino, alla singola famiglia, alla singola impresa, abbandonati a sé stessi da comuni privi di risorse e talvolta pure di idee.

Si tratta di un bellissimo articolo, che fotografa in maniera lucida la realtà sotto indagine, ma a mio avviso non coglie uno degli ostacoli più grandi che stanno mettendo in ginocchio agordino, bellunese e tante altre zone montane: la sfiducia, la mancanza di prospettive. Sia da parte delle amministrazioni che da parte delle popolazioni sembra che il miglior mondo possibile sia lo status quo, e che andrà sempre peggiorando. Non per niente si parla sempre di “mantenere” e “salvare” i servizi, e mai di “implementare”, “potenziare”, insomma, “provarci”.
Si tratta di un aspetto culturale che ci vede assolutamente arroccati su posizioni difensiviste, costringendoci all’immobilità. Chi ha un po’ più di ambizione e speranza se ne va, perché qui non trova terreno fertile di sicuro, altrove chissà.

Stiamo parlando del bellunese, e tutti ricordiamo la corsa al referendum per l’annessione al Trentino di qualche anno fa da parte di innumerevoli comuni confinanti, che si è tramutata ben presto da un fiducioso e sorridente sguardo verso un mondo migliore ad un grido disperato di ascolto nei confronti delle istituzioni. Tutto è caduto nel vuoto, era prevedibile anche se in fondo eravamo in molti a sperare, anche solo passivamente, che non finisse così. Tuttavia nonostante l’autonomia garantisca possibilità altrimenti insperate, non è detto infatti che al di qua si stia poi così tanto meglio.

È vero però che se Belluno conta i morti vedendo di anno in anno sbriciolarsi soglie psicologiche sotto le quali si sperava di non veder mai scendere la popolazione residente, Primiero da quarant’anni galleggia stabilmente sulla quota dei 10.000 abitanti (anche se il dato andrebbe rivisto al ribasso tenendo conto dell’exploit di inizio anni zero di residenze fittizie, ma potrebbe non essere un dato così incisivo come viene percepito).

A Primiero si sta meglio che nel bellunese dunque? Probabilmente sì. Parliamo comunque di un territorio tutto sommato piccolo, tendenzialmente ricco, che ha sempre mantenuto una certa autarchia e che riesce a raccogliere ancora qualche frutto da un passato fastoso basato quasi unicamente sul turismo invernale.
Il discorso si fa diverso quando ci accorgiamo che il legame con i territori vicini è strettissimo, proprio come la principale infrastruttura che lo collega: lo Schenèr. Dalla sanità (quanti primierotti vantano la scritta Feltre o Lamon sulla propria carta d’identità alla voce luogo di nascita?) all’istruzione secondaria, al lavoro (quanti lavoratori in Luxottica e in altre aziende bellunesi?). L’equazione è presto fatta: se il bellunese soffre, Primiero ne risente, ma un mondo arroccato su un turismo ormai sonoramente sconfitto da località vicine molto più attrezzate e propositive, difficilmente ammetterà il problema e continuerà ad attorcigliarsi fino allo strangolamento sulle stesse tematiche.

Primiero, che può permetterselo, dovrebbe sicuramente guardare con più interesse la realtà bellunese, e cercare di fare fronte comune non tanto per arginare l’emorragia demografica o la chiusura dei servizi essenziali quanto per riportare, da entrambe le parti, un po’ di fiducia in un futuro qui e non altrove, parlando tanto ai giovani quanto ai meno giovani, valorizzando chi decide di restare con un progetto serio e concreto e supportando chi da fuori decide di inserirsi nel territorio portando nuove idee ed entusiasmi.

Non si parla certo di faranoici interventi interregionali o ingombranti invasioni fuori provincia, quanto di una presa di coscienza che il ritardo con il quale Primiero inizia a soffrire rispetto ai vicini di casa non è dovuto a chissà quale lungimiranza nelle politiche interne ma semplicemente frutto di un maggiore supporto da parte delle istituzioni provinciali che in passato si è spesso tradotto in assistenzialismo. Ci si ritrova così a non rendersi conto che i problemi sono gli stessi sia al di qua che al di là, minando quindi dal principio ogni possibilità di dialogo, ogni possibilità di autosostenersi a vicenda per rilanciare in senso occupazionale ed economico il medesimo dolomitico territorio. Tra tutte, combattere l’assoluta assenza di prospettiva in un futuro che presenti un ampio ventaglio di possibilità è una battaglia culturale che la popolazione deve affrontare da sé, ma la politica deve supportarla con tutti i mezzi possibili, abbandonando le frivolezze e slegandosi dalle catene del turismo invernale, cercando di aprire gli occhi anche verso quelle che sono realtà importanti, nuove, frizzanti, che esistono ma che forse necessitano di qualche aiuto, strutturale o marginale, per potersi consolidare e dare nuove possibilità alla vita in montagna.

Abbiamo la fortuna di abitare alcuni tra i posti più belli del mondo e li stiamo abbandonando perché ci sembra che le battaglie più importanti siano quelle ad elevati costi e zero benefici: tenere aperto un ufficio postale sottoutilizzato tanto quanto allocare ingenti risorse in realtà irrecuperabilmente fallimentari, quando quello che ci serve è in realtà un progetto a lungo termine per dare realmente la possibilità di rimanere a chi semplicemente lo desidera, facendo il lavoro che desidera; non salvare il salvabile ma investire in un futuro economicamente sostenibile.

La foto in copertina è di Manuel Conedera

Flavio Broch

Nasce in una notte di inizio maggio del 1989. Nevicava, e forse per quel motivo non ha mai smesso di chiedersi il perché di ogni cosa. Per lui CartaPestaNews è una necessità e una grandissima opportunità.

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