Sono nato sul finire degli anni ’80. La parola Schenèr nella mia testa evoca una cosa ben chiara: un’area di passaggio, tortuosa, stretta, scomoda. Un qualcosa che però si fa, perché a Feltre ci si deve andare, a Trento pure e quella è la via più breve.
Per me Schenèr, come per tanti altri della mia generazione, ha significato anche anni di pendolarismo, sveglie quando ancora non si degnava minimamente di far mattino e lunghi e sonnecchiosi rientri pomeridiani ad osservare fuori dal finestrino di una corriera rumorosa paesaggi spigolosi, bui, tetri, e nondimeno decadenti.
Ed è così che mi sono approcciato a “La Via di Schenèr”, il nuovo libro dello storico feltrino Matteo Melchiorre, ingenuamente convinto che quello da me conosciuto fosse lo Schenèr. La cosa forse più interessante che sono riuscito a scoprire una volta finito il libro è che ora, quando passo per il mio Schenèr, non posso fare a meno di pensare e guardare un po’ all’insù, cercando anche solo di immaginare quell’antico cammino calpestato da chissà quante migliaia di viandanti nel corso dei secoli. Ma questa capacità di Melchiorre di tradurre in esperienza vissuta le sue ricerche è solo una delle cose belle che si trovano in questo suo lavoro.
Il libro continua a giocare attorno alla posizione di Primiero: una terra di mezzo tra il mondo tirolese e quello veneziano, quasi sempre in contrasto fra loro, tra i quali quel minuscolo territorio montuoso rappresenta a volte una terra franca quasi ignorata, altre volte una zona strategica, di conquista. E in tutto questo una Primiero che cerca di affermare un’identità propria, che però è spesso troppo confusa per venir presa sul serio.
In “La Via di Schenèr” a farla da padrona sono un’autoironia onnipresente unita ad una capacità narrativa rara, coinvolgente, che fuse assieme riescono a condurre il lettore in un percorso conoscitivo totale, imprimendo nella memoria le vicende che sullo Schenèr e per lo Schenèr si sono succedute, quasi come fossero fatti di cronaca accaduti poco tempo fa, del quale da un giorno all’altro se ne parlerà al bar.
Proprio un bar riguarda un episodio che tanto mi ha colpito nella lettura: quella piccola avventura, forse pure esagerata, che Matteo vive a Tonadico, entrando in un bar dove viene trattato da forestiero, quasi con sospetto, senza neppure esserlo del tutto. Episodio unito a quello immediatamente successivo, in cui in mezzo alla Fiera Matteo viene individuato e “schedato” da una qualche anziana. Bastano queste due chicche, e tutto il provincialismo di Primiero emerge in maniera plateale, nel bene e nel male, e che mostra quanto nulla sia cambiato in tanti secoli. La strada oggi sarà comoda e trafficata, ma lo Schenèr, per Primiero e i primierotti, oggi come allora rappresenta sia un enorme ostacolo sia la sua via di fuga privilegiata.
E questo Matteo Melchiorre lo sa bene, dato che il libro è un continuo ammiccare a questo concetto, ma sarebbe ingiusto ridurre il libro a questo ossimoro. La Via di Schenèr è infatti un documento storico prezioso, ricco e dettagliato, oltre alla narrazione di un’esperienza, un’esperienza di ricerca avventurosa che sa anche uscire dagli archivi per, finalmente, arrivare a percorrerla davvero quella via, ma non prima di averla studiata nei minimi dettagli, perché è l’unico modo per riuscire a coglierne la straordinaria importanza.
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